Appena sceso dall’aereo a Maputo e non appena salito sul pulmino per arrivare al villaggio di Mafuiane, mi sono reso conto di essere stato improvvisamente sbalzato in un posto totalmente diverso: mettere piede in Africa vuol dire entrare in un mondo altro. Mi sembrava tutto così confuso, così caotico, era tutto diverso, gli odori, i colori, i paesaggi e le persone.
Superate le prime difficoltà dell’impatto che per me è stato quasi sconvolgente, siamo arrivati nella piccola missione di Mafuiane che per qualche oscuro motivo mi immaginavo gigantesca, ma che in realtà era molto piccola e modesta. Ecco, non mi chiedete come o perché, ma in questa missione a migliaia di km da Roma io mi sentivo a casa. C’era una strana familiarità, forse dovuta alle persone che ci hanno accolto con così tanta cura. Insomma più che in Mozambico mi sembrava di essere in campagna da mio nonno.
Ci sono 3 esperienze con cui vorrei sintetizzare il nostro breve ma intenso percorso in Mozambico: una comunitaria, una di incontro e una di riflessione.
Sicuramente i ritmi mozambicani non sono così frenetici come quelli romani, anche per noi è stato difficile gestire orari e abitudini così diverse. La sera però quando fra di noi vivevamo e ci raccontavamo le nostre emozioni durante la giornata, le nostre paure e le nostre riflessioni, devo dire di essermi sentito poche altre volte così intimamente comunità. Poche volte mi sono connesso ed ho ascoltato con così tanta attenzione qualcun altro. Ecco, posso dire che nei nostri occhi si leggeva la felicità di essere partiti insieme, di vivere un’esperienza così profondamente toccante da cambiarci, non solo come individui ma anche come gruppo.
L’esperienza di incontro che in un certo senso mi ha colpito è stata quella nel piccolo villaggio di Goba, se possibile ancor più povero di Mafuiane. Lì ci siamo riuniti insieme ai bambini piccoli dell’asilo e abbiamo giocato con loro. Vedere come questi bambini giocavano e si relazionavano con noi, era semplicemente qualcosa di straordinario. Di certo avere dei mulumbu come ci chiamavano, dei bianchi, che giocano con te non è cosa di tutti i giorni, però questa esperienza mi ha fatto riflettere. Quei bambini, così come molti altri bambini in Africa e nel mondo, devono crescere in fretta; le difficoltà e le sofferenze sono davvero dietro l’angolo e credetemi quando vi dico che quel momento, il momento del gioco, per i bambini era sacro.
Da un punto di vista spirituale il mio incontro con Gesù è avvenuto su uno dei pulmini più scomodi della mia vita, nel viaggio di 10 ore per arrivare a Inhambane. Seduta di fronte a me c’era una bambina che ogni tanto si girava, mi guardava e mi sorrideva non con la bocca però, mi sorrideva con gli occhi, mentre io mi continuavo a domandare il perché. Il volto di Gesù per me è il volto di quella bambina: non dice niente, ti guarda con una profondità che potrebbe scorgere le pieghe dell’anima e ti sorride. Ancora oggi ripenso agli occhi di quella bambina e sento il suo sguardo vivo sulla mia pelle. Sempre più si concretizzava in noi l’idea che erano le persone che incontravamo ad insegnarci i valori e ciò che conta nella vita e non il contrario.
Il ritorno è stato davvero traumatico, so che può sembrare assurdo ma in due settimane eravamo pienamente entrati nel clima mozambicano e proprio sul più bello, mentre stringevamo rapporti e relazioni con il villaggio, siamo dovuti tornare a casa. Questo viaggio non mi ha dato delle risposte, non sono partito con l’idea di trovare delle soluzioni, ma sicuramente ho capito quali siano le domande giuste.
Per concludere credo sia opportuno citare un concetto mozambicano che racchiude l’essenza di questo viaggio: Ubuntu. Ubuntu in Tsangana significa: ”Io esisto perché noi esistiamo”. Questo è per noi il messaggio della nostra missione: non siamo individui ma viviamo in funzione dell’umanità.