I nostri giovani sono nuovamente a Mafuiane. Si ripete un incontro che porta con sè il miracolo della condivisione, ma che cela anche alcuni pericoli.
Anche un viaggio così intenso e ricco di significati rischia di non cambiarci per davvero quando non riesce a sconfiggere quella psicologia di massa, quella trappola che ci educa alla passività ed al “buonismo del buon borghese”, che si convince di aiutare l’Africa sofferente, ignorando il senso di un cammino e di una condivisione.
Il rischio è quello di voler evadere dal quotidiano, costruendosi uno straordinario con cui farsi compagnia, il rischio di una filantropia incapace di cambiare la nostra vita.
Nei suoi quasi trentacinque anni di vita l’impegno sociale della Missione è stato accanito.
Nella prima fase si è trattato di un impegno forse ancora più intenso di quello inteso a dotare le “nostre” persone di risorse spirituali: a chi sprofonda in un fosso e rischia di morire, occorre prestare una corda, dargli da bere e da mangiare. Solo dopo gli si parla. Chi era sepolto dall’orrore, doveva essere curato, vestito, rifocillato… la spiritualità serviva ai volontari per condividere e imparare a sorridere, ma per la gente sfinita di Mafuiane l’urgenza era quella di sostenersi materialmente. Gesù prima moltiplicava i pani ed i pesci, poi spezzava la Parola per la gente che da quella parola traeva il nutrimento spirituale per sorgere a vita nuova.
In Occidente siamo ormai decristianizzati e despiritualizzati. I valori portanti dell’opulenta civiltà che abbiamo creato sono collegati alla necessità di riempire ciò che la mancanza di Spirito lascia vuoto: gli oggetti ed il danaro “Proteo incessante”, che serve per acquistarli, il cibo, il sesso, le droghe. Poi il successo che riempie l’ego e rende soddisfatti ma mai gioiosi: perché un oggetto o un successo personale vivono di per sé ed impongono solo un’infinita “coazione a ripetere”, per ricreare un palcoscenico che riaccenda la soddisfazione collegata ad un momentaneo benessere. Questa ansia di autocompiacimento divora sé stessa.
E’ il trionfo dell’io narcisistico, dell’autoesaltazione edonistica: l’altro non esiste di per sé, per la condivisione, ma deve essere specchio, esiste per riconoscere il nostro successo…
Alla fine, si tratta solo di dipendenze che generano inquietudine. La soddisfazione che non può diventare gioia fallisce ed è incapace di riprodursi. E’ introflessa, non realizza e non mette radici, svela la tristezza dell’autoreferenzialità. E quando non sa più riprodursi, perché sterile e assuefacente, non fonda vita ma genera morte.
La nostra gente di Mafuiane era comunità, non aveva bisogno delle illusioni dell’Occidente per essere felice. Ma i “mali” dell’Occidente sono alle porte, recati dalla globalizzazione che invade ogni cosa. Sono alle porte nel consumismo dilagante, nell’alcool che inebria e stordisce, nell’ansia di accumulo di denaro, nella violenza strisciante.
I “nostri” giovani sono a rischio: rischiano di perdersi.
Possiamo e dobbiamo ancora impegnarci per il sociale (lavoro, istruzione, cure mediche, sostegno materiale…), ma non è più possibile fermarsi qui: questa gente aveva bisogno di tutto ma ora sembra abbia bisogno di aiuto supplementare.
Un aiuto, che resti dopo di noi, che siamo come l’asino che portò Gesù a Gerusalemme, un aiuto per poter rimanere nella vita.
Salviamo l’Africa con l’Africa, come diceva Comboni… ma non solo con il pane, ma anche con il “latte” spirituale…
Sarebbe meraviglioso riuscire a e fare e dire con Gesù: “Thalita kun”… alzati agnellino, alzati nello spirito, minuscolo lembo di Africa che ci sei stata affidata tanti anni anni fa.
Ed è con questa speranza che salutiamo ed auguriamo ai nostri meravigliosi giovani un fecondo periodo di condivisione, amore a preghiera con i nostri fratelli di Mafuiane.