Valerio

Diario di Viaggio. Roma-Maputo, biglietto di sola andata.

L’Africa è lontanissima da noi: e non solo per la distanza. Pensare ai suoi problemi, alle ingiustizie ed alle sofferenze, restando inchiodati alle proprie abitudini, oppure utilizzarla come palestra per oziosi dibattiti fini a se stessi, serve solo a crearsi degli alibi. Anche la religiosità deve fare i conti con l’umanità vera e sofferente, con l’indifferenza di un mondo che ha reso strutturale l’abisso fra un “Nord” ricco ed egoista ed un “Sud” tenuto ai confini della dignità; confini protetti da un coriaceo filo spinato. Non bastano gli Alleluja né i buoni propositi.

Questo reportage è il racconto di un viaggio in una Missione, gestita da una parrocchia di Roma (San Frumenzio, guidata da don Gianpiero Palmieri) in Mozambico. E’ il Diario di occhi che hanno visto, di mani che hanno stretto, è il Diario di un incontro, di un “toccarsi” fatto di palpitazioni ma anche di lacrime; di emozioni ma anche di rivelazioni. E’ il Diario di una vita diversa, a 15mila chilometri da noi, che però può diventare un pezzo della nostra vita quotidiana. Un Diario che pubblicheremo giorno dopo giorno, perché la vita delle persone reali non è fatta di concetti, è fatta di giorni in cui vivere. O sopravvivere.

di Valerio Talamo

30 luglio e 1 agosto
(il viaggio da Roma ad Addis Abeba, a Maputo, a Mafuiane)

L’incontro con i compagni di viaggio, vitali ed accoglienti. C’è in me l’idea un po’ scolastica dell’amore solidale che nasce nella condivisione di un’avventura totalizzante. Tuttavia rifletto su come oggi sia necessario un approccio più consapevole, sia spirituale che sociale: non una vacanza, ma un servizio in una terra ricca di bellezza ma anche di sofferenza e contraddizioni. Le mie forze sono soprattutto per le persone che incontrerò, il mio impegno di testimonianza, la mia energia emotiva e morale.

Il viaggio in aereo è stato massacrante, in sedie claustrofobiche che imitavano Ryan Air, ma ero anche molto emozionato e questa emozione era bella, mi faceva sentire un ragazzino la notte di Natale. Arrivati a Maputo nella mattinata del 1° agosto (mai in ferie così presto da quando lavoro!), intraprendiamo il “lungo viaggio” dalla capitale a Mafuiane (40 km: due ore!), terra di Missione. Il tempo di scaricare i bagagli, consegnare le medicine che ho faticosamente procurato in Italia, e andiamo a fare il primo giro per vedere la escolinha dei bambini (la scuola materna costruita e curata dalla Missione, finanziata prevalentemente con gli introiti delle adozioni a distanza). Nel campo di calcio della Missione (tre casupole adibite ad alloggi, più una per i pranzi in comune ed un’altra diventata ufficio), i ragazzi sono impegnati in un torneo: le scuole, infatti, sono chiuse per ordine del Governo. Si vuole dare la possibilità ai ragazzi di aiutare le famiglie nei campi, perché è tempo di raccolto.

Nel momento della Messa, piena di colori, musica e simboli africani, mi sono commosso. Ho pensato a Papa Ratzinger, che si definiva “operaio della vigna del Signore”: è questa la vigna? E sono anche io qua per diventare un operaio? “Esci dalla tua terra e vai e dove ti porterò…”. L’omelia è stata bellissima e toccante, prima in portoghese, poi in italiano solo per noi, pellegrini che ancora non sanno nulla.

2 e 3 agosto
(meditazione, inizio del lavoro, conoscenza del villaggio)

La mattina, dopo una meditazione sotto la payota (capanna) in cui leggiamo Alex Zanotelli e riflettiamo sul Vangelo, iniziamo il lavoro per “Villa Glori”, la casa che dovremo “verniciare”, destinata alle donne segregate dal villaggio con Aids e bambini. Io, Ignazio, Marco, Rita e Francesca passiamo l’antiruggine sui pali di ferro per la staccionata della casa, mentre il resto del gruppo è a Maputo.

La “casa dei vecchietti” è stata costruita dalla Missione per gli anziani che, dopo la guerra civile, si sono trovati segregati dai villaggi ed abbandonati, perché la guerra ha fatto saltare gli equilibri sociali e gli assetti dell’antica società tribale organizzata in clan. In quella casa, un’antica donna mi ha preso in simpatia, ha riso, mi ha fatto prendere dei bergamotti dall’albero per farmene dono. Li mangio felice, mentre camminiamo per le strade sterrate. Questa è la Chiesa degli ultimi, confinati in uno dei sotterranei della storia. Nei poveri è il volto di Dio.

Oggi, 3 agosto, abbiamo fatto un lungo giro per l’Aldeia (il villaggio), in questa realtà così profondamente diversa da quelle occidentali, in cui le case sono disabitate tutto il giorno perché le persone sono abituate a vivere all’aperto, fra galline e capre, nella terra rossa che ti si attacca addosso e non si stacca più. Don Gianpiero ha rimproverato un paio di noi perché abbiamo scattato foto a gente del villaggio, dopo aver chiesto loro, ovviamente, la disponibilità (i bambini ne sono felicissimi). Ma fotografare può essere un tentativo di fermare l’attimo, di perpetuare un’emozione, di relazionarsi con le persone e creare empatia; per condividere e poi per testimoniare.

 4 agosto
(passeggiata al Marcado di Mafuiane, al fiume Umbeluzi, con la criancas – la folla dei bambini – che ci fa festa)

Essere in questo contesto in modo cristiano e consapevole, ma anche rispettoso. Questa gente ha subito la storia. E’ terra di deportazione di schiavi, poi dell’imperialismo europeo. Alla durissima colonizzazione portoghese, durata fino a tempi scandalosamente recenti, hanno fatto seguito 17 anni di feroce guerra civile che hanno reso il Mozambico uno degli Stati più poveri del mondo. Ed ora è pronta una nuova colonizzazione, questa volta economica, da parte delle nuove e vecchie potenze economiche mondiali, principalmente della Cina e del Sudafrica (che qui rappresenta l’Occidente), che come altri aspirano alle ricchezze naturali di cui il Mozambico è ricco (ricchissimi giacimenti di gas naturale e carbone sono localizzati nel nord del Paese).

La loro lingua non è il portoghese, la lingua dei colonizzatori, ma il Ronga e lo Changano. L’Occidente qui ha imposto un regime imperiale che si è nutrito di oppressione e di repressione. Dietro la guerra civile c’erano gli interessi sudafricani, sovietici, americani… Mi chiedo se lasceranno mai il potenzialmente ricco Mozambico divenire autonomo ed incamminarsi verso assetti di dignità sociale ed economica, oppure se i padroni del mondo lo terranno eternamente soggiogato.

Ora noi, però… Occorre camminare in punta di piedi per comprendere questa realtà, che è il presupposto per poterla rispettare. Evitare fenomeni di acculturazione, ma, nei limiti del Vangelo, favorire anche in campo spirituale l’inculturazione di riti e tradizioni locali. E’ quello che vedo nelle variopinte messe cantate e ballate. Ma non mi pare nemmeno onesto dimenticare – soprattutto in queste terre – il significato “sociale” del Vangelo, che qui deve vivere e dare frutti. Il Regno di Dio sulla terra – ne discuto con don Gianpiero – è costruito dagli uomini, e la religione non può essere un puro esercizio spirituale. Gesù camminava con gli schiavi, tuonava contro i ricchi che godevano sulla terra e contro l’ipocrisia del ceto di burocrati della religione che imponevano gabelle formali al popolo che erano i primi a non rispettare. Il giubileo degli ebrei nacque per redistribuire terra e ricchezze ed estinguere i debiti ogni cinquanta anni; le prime comunità di credenti, dopo Gesù, cercavano di operare secondo il sogno del Vangelo e dell’ebraismo dopo Mosè, in cui tutti condividevano e dovevano vivere secondo dignità. Anche adesso ed anche in queste terre l’uomo di fede non può limitarsi a contemplare, ma deve operare per eliminare le disuguaglianze chiedendosi da dove derivino: non ha senso parlare del “Vangelo ai poveri”, senza mettere in discussione i sistemi che creano la povertà: a quale sistema politico-economico è funzionale il Mozambico?

Dio vive nei derelitti e nei bambini, piange accanto ai primi e chiama a sé i secondi. Accompagna gli schiavi sfruttati dal faraone e non stringe alleanza con Pilato: è contro l’Impero. La teologia della liberazione non escludeva un intervento anche violento per il Regno di Dio sulla terra; la teologia del popolo di Bergoglio, il nuovo Papa, chiede una militanza attiva ma non violenta. In ogni caso, se avalli la realtà circostante (come ha fatto per secoli tanta Chiesa occidentale, che da queste terre ha sradicato riti e culture per insegnare che occorreva accettare la volontà di Dio, perché la soddisfazione alle ingiustizie non è di questo mondo), sei fuori dal Vangelo. Questa contraddizione qui è evidente. Non può esistere una religione imperiale in cui Dio fa alleanza con il faraone e benedice Cesare, non può essere prigioniero di un sistema che crea bassifondi della storia e della vita. E la soluzione non può essere meramente contemplativa, ma proattiva: occorre solo scegliere se essere come Madre Teresa di Calcutta, che non si chiedeva l’origine del male ma si impegnava a curare le conseguenze dello stesso, o se porsi delle domande per cercare una soluzione sociale ed economica. In ogni caso non è possibile rimanere chiusi nelle Chiese a contemplare il tabernacolo.

Una lunga passeggiata fra i campi, fra alberi di mango e di banane, fino al fiume Umbeluzi dove, in un quadro profondamente africano, le donne lavano i panni, ma a noi non è permesso avvicinarsi per non contrarre le temibili malattie al solo contatto con l’acqua. Un’acqua che loro usano anche per bere.

Mi pesa la circostanza che qui la giornata finisce presto. Ci si sveglia poco dopo l’alba, si fa colazione verso le sette e mezza, si medita fino alle otto e mezza. Alle sei di sera c’è la messa, nella piccola chiesetta decorata all’interno con sgargianti disegni colorati. Dopo è buio, intorno c’è solo campagna, non ci sono né mezzi né opportunità, ed occorre rientrare nella Missione, vigilata da soldati in arme ed uniforme! L’unica opportunità è la cena, in cui cuciniamo – a rotazione ed all’occidentale – le verdure che si comprano anche all’ingresso dell’Aldeia ed i cibi acquistati nella catena di supermercati sudafricani “Shoprite”. Scopro (non solo in me) una sorta di frenesia alimentare: mangiamo tutti troppo, più che in Italia. Il cibo è evidentemente uno sfogo ed ha ruolo compensatorio.

Il Mozambico e la Missione a Mafuiane

Il Mozambico è grande tre volte l’Italia ed ha una popolazione di circa un terzo (21 milioni circa). Fino al 1975 ha subito la feroce colonizzazione portoghese terminata solo con la caduta del regime di Salazar, poi una terribile guerra civile durata più di quindici anni (1977-1992) che ha causato oltre un milione di morti e quattro di profughi. La Costituzione del 1975 ammetteva un solo partito, il FRELIMO (Frente de Libertaçao de Moçambique), artefice della lotta di indipendenza, che cercò appoggio, nella catastrofica situazione in cui versava il Paese nella fase di decolonizzazione, nell’Unione Sovietica e negli altri paesi del blocco comunista. Lo schieramento opposto, la RENAMO (Resistencia National Moçambicana), venne costituito e finanziato dai governi razzisti della Rodhesia e del Sudafrica (che temevano il carattere indipendentista e anti-apartheid del nuovo Stato), e dagli Stati Uniti in funzione anticomunista. La guerra si chiuse solo dopo la rinuncia del Frelimo all’ideologia marxista-leninista e l’apertura ad un’economia di mercato che ha comportato la privatizzazione delle imprese di Stato e l’adozione di un sistema pluripartitico. Attualmente gli interessi più forti sono sudafricani e cinesi, ma sussistono forti tensioni politiche che rischiano costantemente di sfociare in una nuova guerra civile, anche se ormai la divisione non ha più nulla di ideologico. C’è ben poco di comunista nello Stato attuale, anche se il Partito occupa ogni carica ed ogni posto disponibile.

Permane la fortissima carenza di medici che ha caratterizzato lo Stato dalla sua formazione (nel 1975 erano presenti, in tutto il territorio, solo 80 medici). Le strutture sanitarie pubbliche sono spesso fatiscenti. Attualmente è presente un medico ogni 440.000 persone, con un tasso di mortalità infantile del 158 per mille, un’aspettativa di vita di 48 anni, un tasso di analfabetismo del 56% ed un tasso di povertà assoluta del 65%, che riguarda quindi più di 14 milioni di persone.

La Missione San Frumenzio ha costruito a Mafuiane, oltre la Chiesa e gli alloggi della Missione e delle suore, una scuola per l’infanzia con tre aule per 200 bambini, alcune aule della scuola pubblica primaria, la casa dei velhinos per gli anziani abbandonati dopo la guerra (attualmente ci sono 12 persone). Sta costruendo una casa (“Villa Glori”, oggetto del nostro impegno) per donne con Aids e bambini. Inoltre ha curato un progetto di alfabetizzazione sanitaria per gente dei villaggi, concede borse di studio, ha organizzato corsi di formazione professionale (falegnami, elettricisti, operatori computer), ha fornito computer dall’Italia tramite appositi container, ha costruito 20 case in muratura per la gente del villaggio più indigente ed una sartoria che al momento è ferma (presso la casa dei velinhos). Concede provvidenze economiche ed interviene nei casi più delicati. Ha inoltre, presso Goba, restaurato la vecchia missione, realizzato corsi di formazione, operato con un progetto di assistenza per mamme indigenti con bambini, finanziato un capannone per l’allevamento di polli, curato un progetto per il microcredito, formato operatori sanitari che operano nei villaggi, un giornale locale, un asilo per circa 50 bambini, un gruppo di teatro che cura nei villaggi rappresentazioni per sensibilizzare sul tema della prevenzione dell’Aids, la promozione dei diritti della donna, la lotta all’analfabetismo.

Nel villaggio di Mafuiane – circa 5000 persone – si parlano Ronga e Changano. I problemi più severi sono di carattere sanitario: manca un sistema di smaltimento rifiuti, non esistono fogne, l’acqua viene attinta ad un sistema di pozzi che, tuttavia, non pescano in profondità per cui rendono disponibile poca acqua. Con la conseguenza che le gente del villaggio usa, per lavare ed anche per bere, l’acqua del fiume Umbeluzi, che tuttavia è inquinata dai liquami da loro stessi prodotti, per cui il rischio di colera è molto diffuso. Attualmente la prima causa di mortalità nel villaggio accertata è l’Aids (come in tutta l’Africa, dove i malati sono poco meno di 30 milioni), anche se la gente dell’Aldeia per pudore non la denuncia, poi la malaria. Sono molto diffuse diarree e malattie intestinali, ma anche malattie della pelle, dei bronchi e parassitosi (scabbia, tigna, micosi) nonché la cistotomia. Si sono riscontrati alcuni casi di TBC.

E’ in corso un importante progetto denominato “saude da criancas” (salute per i bambini), che prevede, con risorse derivanti dall’8 per mille ed un contributo del Comune di Roma (al momento non ancora accordato), un approccio di tipo preventivo/educativo e curativo. Attraverso due visite per mese viene compilata una scheda sanitaria per ciascun bambino, in modo da intervenire subito nei casi che necessitano cura; inoltre si prevedono indagini nel villaggio, casa per casa, per verificare le condizioni igienico-sanitarie ed implementare corrette prassi. Il risultato atteso è la diminuzione delle malattie infantili.

5 agosto
(i bambini, il mio angelo nero, la “festa di laurea” al villaggio, la loro sessualità)

I bambini, Dio mio, i bambini… Sono tutti troppo belli, sono tutti angeli. Per le strade sterrate dell’Aldeia, anche se sei in macchina, ti salutano con le manine piccole: accorti, incuriositi, ridenti, raramente intimiditi. Se sei a piedi ti urlano da lontano: “valungu” (bianchi, in lingua ronga) e poi ridono felici se gli rispondi nella loro lingua “mulandi” (neri!), e ti inseguono per essere fotografati, ti salgono addosso, ti prendono in giro, ti scrutano… Altre volte sorridono solo, o nemmeno, tutti compresi nelle loro attività (trasportare acqua) o nei loro giochi, che prevedono immancabili copertoni da far rotolare, coi piedini nudi e i vestiti sporchi e bucati in ogni dove. Ma nei loro occhi brilla la speranza, la speranza dell’Africa tutta.

Oggi siamo stati in una festa al villaggio con balli etnici, capotribù orante e cibi tradizionali. Ho mangiato i loro cibi, danzato e giocato con i loro bimbi pieni di treccine, sorrisi e senza scarpe. Una di loro (era “Gonario” di Gianni Rodari, ne sono sicuro, perché era minuscola, sporca e vestita di stracci) l’ho stretta al cuore: e lì è restata. Piccolo angelo nero. Mi toccava il naso ed io i suoi occhi neri, neri… Poi la bocca, e cercava di aprire il mio giubbotto da Indiana Jones, per poi ridere quando le toglievo le manine. Minuscolo ammasso di dermatiti e ferite, con i piedi nudi sulla terra rossa e tutta sporca, veniva allontanata dagli stessi cortei cantanti della gente del villaggio di capanne. Uno del mio gruppo l’ha presa in braccio e lei gli ha fatto la pipì sulle gambe, come un cagnolino emozionato. Con me, invece, rideva ed aveva una caramella in bocca che gli aveva dato uno di noi. E mentre rideva (cascate argentine) gli è caduta nella terra (non era abituata alle caramelle, o a ridere?). Si è fatta seria seria. Ha piegato le manine, più nere della sua pelle, ed ha raccolto la caramella. Ci ha tolto da su, come ha potuto, la terra che affiorava, e l’ha rimessa in bocca. Non ho avuto la forza ed il coraggio di togliergliela. Piccolo pezzo di cielo, nero ed illuminato come una notte africana piena di stelle.

E’ stato emozionante. Isaia si è laureato dopo una borsa di studio (ed una … bicicletta) concessa dalla Missione. Siamo stati invitati alla festa nel “giardino” della sua casa nell’Aldeia. E’ stato un saggio di antropologia. Davanti al laureato, vestito con il grembiule nero e la feluca da universitario, una serie di persone hanno declamato le sue lodi, vestiti di tutto punto, con tono solenne e formale di fronte all’uditorio del villaggio, seduto in modo compunto e silenzioso. Parlavano in portoghese ed a volte in Ronga: il laureato, commosso ed a volte in lacrime, è stato vivamente ripreso dalla moglie, nient’affatto accomodante (un uomo qui ha un ruolo sociale molto definito e non gli sono permessi sentimentalismi). Ogni intervento ricordava la sua fatica, la sua dedizione, l’importanza della …”bicicletta”, i sacrifici della famiglia cui si ricongiungeva solo il fine settimana, e come sarebbe stato contento di lui il padre scomparso. Dopo il rituale lavaggio delle mani, su un catino servito dalle donne del villaggio, si è mangiato: chamusa (specie di empanadas fritte ripiene di pesce), xima (polenta di granturco), arroz (riso bollito), vacca in umido, la gova, una verdura particolare, l’immancabile pollo arrosto, rape rosse in una specie di maionese.

Dietro la casa, le cucine sono in realtà pentoloni che cuociono su legna: di gas in bombola sono fornite solo la Missione e la escolinha, ma la legna è molto più consona a stili e tradizioni del luogo (dove la gente non è abituata a vivere nelle case) ed anche notevolmente meno costosa. Poi abbiamo scattato le foto ai bimbi, giocosi e sorridenti, ma a volte anche tristi come se portassero sul viso i dolori del mondo. La consegna dei regali è stata… un regalo per noi, che ho cercato di filmare in modo imbranatissimo, come mi succede quando mi esercito nelle cose meno speculative e più manuali. Per tutto il pomeriggio piccoli gruppi in marce cantanti e ballanti, piene di donne sinuose e festanti, spesso con i loro bambini avvolti sulla schiena nelle coloratissime capulane (i teli che usano anche come gonne), portavano regali al festeggiato a volte molto poveri (un piatto, un contenitore di plastica, una cassetta di birre marca 2M, che si contende con la Laurentina il ruolo di birra “nazionale” del Mozambico). Lui sempre silenzioso ed emozionato.

Bellissimi i canti, splendide le ragazze. Le bambine a dodici anni sono già donne: hanno i movimenti, la bellezza fiera di una razza antica ed il volto già adulto. Diventeranno madri entro breve, con uomini che magari scompariranno subito dopo, ed i loro bambini saranno spesso cresciuti dai nonni e dal clan, per permettere loro di diventare nuovamente madri ed a volte mogli. Non esiste quasi più poligamia (solo nell’entroterra del Nord del Paese, mi hanno detto), ma la promiscuità sessuale è molto diffusa. Questa gente non ha vissuto la morale proibizionista della Chiesa cattolica romana e la sessualità è vissuta in modo istintivo e naturale, come espressione della stessa vita e della natura di cui si è parte. La vita all’aria aperta, il calore (è caldo anche adesso, quando qui è formalmente inverno), fanno il resto. Così, tuttavia, si diffonde anche l’Aids, per cui mi chiedo come sia possibile conciliare un equilibrio fra tante esigenze diverse. Probabilmente occorre lavorare molto sulla prevenzione, senza moralismi, senza imporre alcun modello culturale. Sempre e comunque in punta di piedi.

6 e 7 agosto
(Andiamo a Maputo, al mercato dell’artigianato per comprare oggetti da rivendere nella pesca di beneficienza di Natale per il finanziamento della Missione. Mangiamo ad un ristorante tipico mozambicano: io vacca in salsa di cocco e anacardi, e polenta derivata da una specie di granturco che qui chiamano “xima”. I compagni di viaggio. Poi Messa al villaggio. A Namacha, nell’ospedale dove i vivi muoiono, i lavori alla casa si intensificano. Parliamo anche di politica. Don Gianpiero)

La Messa è stata veramente bella e tutto il villaggio ha partecipato con i suoi canti accompagnati dagli strumenti tradizionali, le donne sulle stuoie, le letture in tre lingue (portoghese, ronga e italiano). Il Vangelo – in italiano – l’ho letto io su indicazione di Gianpiero. Mi ha fatto piacere, è stato davvero molto emozionante di fronte a questa platea.

Con Ignazio abbiamo preparato colazione e cena (ruotiamo fra tutti per questa incombenza). Il pomeriggio andiamo a Namacha, al confine con lo Swaziland, sulla superstrada che porta in Sudafrica dove lavora la maggior parte della gente dell’Aldeia. A Namacha c’è una bella Chiesa Coloniale dedicata alla Madonna di Fatima, presso cui si verificano – nelle date rituali – pellegrinaggi oceanici da tutto il Mozambico. Ma l’ospedale che andiamo a visitare è sconcertante: un solo medico per tutto l’ospedale fatiscente… “Si entra vivi per uscirne morti”, dice Gianpiero con un soffio di voce, come parlando fra sé. Uscire dall’ospedale è un sollievo, dà il senso dello scampato pericolo. Che ne sarà di chiunque si senta male in questa terra? Ma poi, all’improvviso, veniamo sopraffatti da un tramonto africano dai mille colori.

Il mio pensiero, però, va spesso al piccolo angelo nero. Perché sono qui? Cosa cerco? Il bisogno di trovare il senso delle cose, di toccare con mano realtà diverse e capire che la realtà ha diverse facce: sociali, umane, spirituali. Per costruire, imparare, comunicare, vivere il “viaggio”… E se il senso della vita fosse in una dimensione così? Per realizzare una totale esperienza di servizio agli altri, nella totale donazione di sé? Mi immagino a vivere un’esperienza di cristiano militante, al servizio di mille piccoli angeli neri.

Amo questi momenti – prima di cena nella nostra piccola stanza in cui dormiamo e ci laviamo in quattro (è andata peggio alle ragazze: in sette in letti a castello) – in cui Gianpiero ci legge qualche notizia via internet dall’Italia con voce sottile, Ignazio sul letto ascolta musica che fa suonare dal suo Ipod, Marco scherza. Discuto con Gianpiero brevemente di cose piccole o grandi: la fede, questo o quel libro, considerazioni di geopolitica internazionale o del mio lavoro.

La sera c’è stato un momento comune di preghiera molto bello: Gianpiero ci chiede di dedicare il pensiero e la preghiera ai volti ed alle persone che abbiamo incontrato in questo viaggio. Io parlo del piccolo angelo nero e la mia voce trema visibilmente, ho pudore ad esporre i miei sentimenti… Ma li esprimono anche altri: viene fuori il povero handicappato che si era avvicinato alla festa del villaggio, anche senza essere stato invitato, per ottenere un po’ di cibo; i ragazzini che avevano chiesto dei biscotti a Maputo all’uscita del market, li avevano divisi in silenzio e mangiati con gli occhi tristi e vera fame; Marcela, la mamma spastica e con l’Aids della piccola Scolastichinha, che ha perso la sua seconda bambina ed i cui occhi sembrano persi in un oceano di lacrime che non sa esprimere.

Ormai i lavori alla casa sono a pieno regime. Scartavetro un mare di mura ed iniziamo a passare il primer: gente dei villaggio, anche Marcela, vengono ad aiutare… Ignazio, prima compreso in se stesso e quasi spaurito, si emancipa: ora è sempre insieme a Marco. Scherzano e ridono… Ridiamo anche noi, con Rossella vitale e gioiosa, Francesca con il suo sorriso incapace di meschinità, Greca pacificata ed accogliente, Ester e poi Rita con la sua abnegazione, la generosità da libro Cuore…

Dopo cena tengo un “sermone” politico economico. Non so come e perché capiti, so che mi trovo a disquisire sulla politica, rapporti sociali, economia globale, derivati e titoli tossici. Poi Berlusconi, i cui echi della condanna arrivano anche qui, la magistratura, il Presidente Napolitano elemento debole di garanzia nel caos…

Forse i miei compagni di viaggio mi sopravvalutano. Però mi spingono a pormi delle domande. Mentre parlo, mi trovo a chiedermi quale può essere il ruolo della persona etica in un contesto sociale e politico così disgregato come quello italiano. Estraniarsi dalla politica sul presupposto della sua degenerazione, rifugiandosi nel privato, è una risposta qualunquista ed individualista, che cela egoismo. E’ sufficiente limitarsi a far bene il proprio lavoro, cercando di vedere – magari nella gestione burocratica di carte e quesiti – l’interesse della collettività, o non si è forse pezzi di una cinghia di trasmissione che ci sovrasta, che è sopra di noi e di noi si serve per i propri fini? Il mio lavoro serve solo a chi sta sopra di me e devo prendere atto che sono in un trip autoreferenziale e senza senso? La risposta non c’è, almeno non stasera, ma capisco com’è stato strano e bello averne parlato insieme, a tanti chilometri di distanza.

Mercoledì 7 agosto, tutta una mattinata di lavoro alla casa, nuovamente con la carta vetro. Messa fra le capanne dove vive la povera gente del mato. Un fiume di bimbi vestiti di colori e senza scarpe, in ginocchio davanti al Padre orante: “Lasciate i fanciulli venire a me”. Mani nere che si protendono sorridenti, uomini vestiti di povere cose, dopo la funzione. I ringraziamenti a noi che siamo con loro a condividere, nelle antiche lingue per noi incomprensibili che hanno resistito alla colonizzazione. L’incontro qui è anche solo guardarsi, sfiorarsi, sorridersi…

Il mio umore qui assume colori strani. Mi sento giù ma mi lascio trasportare, la notte riesco a leggere un saggio su una rivista che mi ha dato Gianpiero ma non ho voglia di leggere le altre cose che ho portato con me. In compenso dormo male, poco, in modo disturbato ed intermittente. Mi sveglio fuori dalla zanzariera, con il terrore di essere stato punto dalle zanzare della malaria (sono stato “colpito” già sei volte… ai posteri l’ardua sentenza).

La sera ho parlato con don Gianpiero: che meravigliosa figura, questo giovane uomo dimentico di se per vivere la militanza del Vangelo… (quella tosse che lo perseguita da due anni, e mai ha trovato il tempo di farsi vedere, sembra una storia da romanzo di appendice). E’ stato un momento intenso. La morale sessuale nella Chiesa cattolica ha assunto una centralità preoccupante, ne discuto nella sera che all’improvviso diventa fredda (l’escursione termica è repentina ed impressionante). In fin dei conti Gesù, di sessualità, parla un paio di volte in tutto il Vangelo. Molto di più parla dell’inconciliabilità di “Abbà” e “Mammona”, perché la ricchezza non condivisa è incompatibile con il Regno di Dio. A Gianpiero però interessa il cuore, il peccato che nega l’altro, l’inedia morale che porta ad accumulare soldi, prestigio e potere dimenticando gli altri perché in ogni persona è riflesso il volto di Dio, la dimensione di disimpegno, il guardare solo il proprio ombelico… Ad un certo punto mi è sembrato addirittura che fosse lui a chiedermi aiuto. Aiuto per non essere solo, per condividere anche io con lui una dimensione di impegno per costruire il Regno di Dio sulla terra. Gli ho parlato della mia ricerca spirituale, delle tante esperienze, dei miei dubbi sugli itinerari che a volte segue la Chiesa e che fanno star male, per esempio con i movimenti troppo legati al potere o oltranzisti e iperconservatori, che usano il Vangelo come una clava. Era interessato, voleva sentire il mio parere, mi ha fatto sentire bene. Era amico, umile, la voce sempre così sommessa, dolce, accogliente, di questo sacerdote diocesano e … militante, che quando parla della sua fede si commuove…

Durante la cena si è parlato delle difficoltà del rapporto di coppia, dell’incapacità di chiedere aiuto. Troppe volte vedo e tocco questo tipo di situazioni per non chiedermi se il rapporto di coppia non sia geneticamente destinato – una volta sganciato dalla “cultura” (sociale, politica, economica, religiosa) che lo ha storicamente conservato – a sciogliersi. Il matrimonio monogamico mi sembra un’aggregazione convenzionale, le persone poi vanno dove le portano gli interessi e le circostanze, le alchimie e la giostra dei sentimenti, i movimenti e la complessità del desiderio, le incoerenze e le intermittenze del cuore…

8 e 9 agosto
(a Maputo all’arcivescovado, dove Gianpiero cerca sostegno alle politiche della Missione, poi nell’inferno della Lixeria. L’incontro con le Suore di Madre Teresa e poi nella casa dei vecchietti con la suora con la calza bucata)

La mattina, alla casa dei vecchietti, una donna si rompe il femore, Ignazio e Marco la portano all’ospedale di Maputo, con loro c’è anche Gianpiero. Io, dopo aver scattato con Ester le foto ai vecchietti della casa dei velinhos ed ai bambini dell’escolinha per le adozioni a distanza, mi ammalo (!). Ho febbre fino a 38, mal di testa molto forte… Mia madre mi stupisce: senza sapere nulla (da Taranto!) mi dice che “nella preghiera ha sentito che sto poco bene fisicamente… mi chiede se ho qualcosa”.

Per fortuna la sera sto meglio (è bastata la tachipirina): forse è stata tutta la polvere che ho respirato nello scartavetrare la casa in costruzione, oppure la mancanza di sonno (continuo ad addormentarmi a mezzanotte e svegliarmi alle sei in un continuo dormiveglia, massacrato da zanzariere e… zanzare). Oppure è stato un colpo d’aria o il cibo che ho assunto alla festa di laurea?

La sera riesco persino a partecipare ad una riunione sulla situazione sanitaria del Villaggio e sul progetto “Saude da criancas”, la salute dei bambini. Penso che sia opportuno implementare questo progetto per tanti motivi. I medicinali che ho faticosamente racimolato servono le esigenze rilevate nell’ambito di questo progetto (si tratta per lo più di guanti in lattice per visita, garze sterili, mascherine, antimicotici e antibiotici a largo spettro). Inoltre non è assente l’aspetto educativo: è evidente che occorre agire su di una certa cultura e su alcune condizioni di contesto e strutturali per operare in modo efficace, giacché l’approccio meramente curativo è insufficiente se non si agisce anche sulle cause della malattia. E queste cause sono in buona parte derivanti da motivazioni igieniche: le fogne a cielo aperto, la convivenza negli stessi spazi di uomini ed animali, la poca igiene personale, la contaminazione di cibi e bevande, l’alimentazione poverissima (i bimbi dell’escolinha curata dalla Missione spesso assumono lì l’unico pasto della giornata)…

Soprattutto, il problema principale è costituito dall’acqua. Occorre cercare sponde istituzionali: nel distretto di Namacha (a pochi km) opera un acquedotto, si dovrebbe cercare di favorire un allaccio, anche se contro questa soluzione milita un problema burocratico (è un altro distretto, con le conseguenze che ciò comporta) ed uno culturale. Le autorità vorrebbero, infatti, che si pagasse l’energia elettrica necessaria per trasportare l’acqua, cosa che le popolazioni del villaggio per cultura non sono disponibili a fare, perché considerano l’acqua un bene che gli appartiene per diritto di natura, perché è la natura che la fornisce gratuitamente. Un progetto simile nel passato è fallito proprio per questo motivo. Ecco perché occorre lavorare in modo non invasivo su certe culture e sulle percezioni collettive radicate in certe culture. La seconda soluzione dovrebbe essere quella di scavare altri pozzi e di farli più profondi (gli attuali arrivano a dieci metri, dovrebbero essere profondi almeno il doppio). Questa soluzione, secondo il responsabile del posto di saude, tuttavia, trova ostacolo nella circostanza che l’acqua risulta comunque troppo ricca di sali e nel lungo periodo potrebbe esserne negativo il consumo (ma si potrebbe in ogni caso utilizzare per lavare e lavarsi, irrigare). La terza soluzione, più rispettosa delle tradizioni locali, potrebbe essere quella di kit per la potabilizzazione delle acque del fiume.

Il 9 agosto è giorno di uomini e spazzatura.

“Lixo” in portoghese significa immondizia. Nella Lixeira, a Maputo si è formato un immenso quartiere di derelitti, più poveri di ogni povero, umanità dolorante e disperata che vive di poveri traffici e raccogliendo il possibile fra i rifiuti. Come in una metafora beffarda, nel rio della pattumiera, incontri la “Casa dell’allegria” delle Suore di Madre Teresa di Calcutta, che opera per dare speranza o almeno un minimo di dignità all’orrore.

Qui l’AIDS ha il volto di bambini sorridenti e abbandonati che nessuno adotterà mai, che ti avvolgono e poi battono le mani, ti salgono addosso per abbracciarti ed essere abbracciati e poi ridono e salutano inconsci dell’orrore che li circonda…

Dall’alto, intanto, i colori del tramonto vincono le macerie della discarica. Ma non hai voglia di fotografarli.

Nel viaggio di ritorno da Maputo siamo silenziosi. Nel pomeriggio giriamo per l’Aldeia con Gianpiero. La Messa si tiene alla Casa dei vecchietti fra un mare di bambini… C’è una scena molto bella durante l’ostensione: accanto alle decine di bimbi neri inginocchiati c’è anche una suora croata dalla pelle bianca… e la sua calza è bucata. Penso a lei, simbolo di una chiesa povera che è la casa degli ultimi, e poi penso ai preti pedofili ed ai traffici vaticani.

La sera va via la luce. Ognuno si cimenta in racconti che fanno paura, quasi soprannaturali. Io racconto una barzelletta per ridere insieme. Stratagemmi contro il buio, o forse contro la Lixeira.

10 e 11 agosto
(la diga degli italiani, Stelio, la Messa a Goba e la cena di saluto)

Lavoriamo alla casa: la mia parete è tutta rosa: che sia di buon auspicio!

Nel pomeriggio andiamo alla diga costruita dalla cooperazione italiana, sulla strada per lo Swaziland, vicino Namacha. Assistiamo ad uno splendido tramonto africano sull’acqua, godendo del silenzio.

Stelio, il reggente della Missione, è una persona particolarissima, come solo può essere chi sceglie – da laico peraltro – di lasciare tutto per andare a fare il missionario in terre lontane. A volte rigido, sembra quasi poco accogliente. In alcuni momenti, però, si lascia andare ed allora viene fuori la sua grande dolcezza d’animo… quella stessa che è alla base della sua abnegazione, del suo donarsi agli altri. Per cui, in ogni caso, tutto gli deve essere perdonato.

Domenica 11, durante il viaggio a Goba per la Messa, vediamo l’Africa che vive nelle capanne. Il rito è colorato. Qui la Messa è evento di popolo. Sulla lavagna il nome dei canti che accompagnano la funzione, colorati e ritmati: durante in Vangelo, al contrario che in Italia, ci si siede e non ci si alza in piedi, vi è una lunghissima parte in cui ognuno fa le proprie preghiere spontanee, nella parte finale si parla delle esigenze della comunità, si fanno due offerte, per i poveri e per la Chiesa.

Mi pare un altro esempio di inculturazione, ma che mi sembra ad ogni modo ancora timida. Si potrebbe fare di più, tentare un rito africano: la fede in assonanza con le culture locali senza limitarsi a musiche ed a qualche simbolo. Gianpiero ci presenta alla comunità locale (come aveva fatto la domenica prima a Mafuiane), poi il coordinatore della comunità di Goba chiede che parli uno di noi. Lo faccio io: mi va, e gli parlo dei colori, di tutta questa musica, dei loro meravigliosi bambini, dei sorrisi che abbiamo incontrato e di come porteremo tutto questo con noi a Roma. Ma non dico nulla sulla povertà estrema e sull’emergenza sanitaria, sulle contraddizioni, sulla lixeira e sulla consapevolezza di essere impotenti rispetto alla disperazione che abbiamo incontrato. Dopo la funzione la gente è veramente tanto accogliente e ci saluta festosa, gioiosa. Fra la gente un bimbo minuscolo, vestito di tutto punto con un improbabile smoking. E’ lui al centro dei nostri sorrisi e gli facciamo festa: lui ci guarda compunto, serissimo, con un fare interrogativo.

La sera cena di saluto con le suore della missione che alloggiano in un piccolo stabile affianco la missione. Si verifica una strana ripetizione di vivande: noi arrostiamo il pollo alla brace e le suore portano il tacchino al forno (ruspante, incredibilmente buono).

12 e 13 agosto
(Parte il primo gruppo. “Finiamo” la casa. Nell’Aldeia alla ricerca del “totonto”. Il Marcado di Bojane, colori e tensione)

Nel pomeriggio vado a passeggiare con Ester nell’Aldeia. Cerchiamo le case con la bandiera bianca che avverte che in quel posto si è fermentato il granturco, ricavandone “totonto”, il liquore del posto, che usano bere sotto gli alberi facendo comunità e prendendo delle ciucche spaventose. Ma non lo troviamo. Troviamo, in compenso, un enorme numero di bambini che ci inseguono per essere fotografati e si mettono in posa come tanti modelli e poi ridono felicissimi rivedendosi in foto. I più piccini sono portati sulle spalle, nelle capulane, dai fratellini poco più grandi di loro. Le bambine a dieci anni hanno sguardo da donne: da piccine (l’ho notato dal primo giorno) sono già vezzose, da dieci anni in più sono quasi ammiccanti. Alcune donne ci chiedono di essere fotografate sospendendo la propria occupazione: ridono felici anche loro dopo essersi riviste nelle macchinette elettroniche.

Martedì 13 siamo al Marcado di Boiane, pieno di colori, ma senza quella ingenuità gioiosa che si avverte nell’Aldeia. La gente è più serrata, avverti tensione, le persone non vogliono essere fotografate. Mentre aspettavamo la macchina che ci avrebbe riportato alla Missione parlo con Ester in modo importante, profondo. Nella prima parte del viaggio ne avevo notato la forza, ora ne viene fuori la profondità: cerca anche fisicamente un contatto con noi tutti e già parla con nostalgia di questo viaggio, vorrebbe rimanere qui ancora un pò. Le ho detto che mi sembra avvinta da “sindrome del Monte Tabor”, ne abbiamo riso insieme. Io ed i miei compagni ormai ci conosciamo ed ora siamo belli e forti di questa condivisione. Anzi quest’esperienza me li ha resi più che compagni e sarà bello, in futuro, lavorare insieme per ciò che abbiamo appreso qui o anche, semplicemente, sorriderci complici.

 

Nel pomeriggio sono ancora con Ester nuovamente alla ricerca di “totonto”: c’è anche Ignazio che il pomeriggio precedente aveva declinato per la troppa stanchezza fin qui accumulata. Lo troviamo finalmente, ma il realismo prevale sull’entusiasmo e ci impedisce di berlo (l’odore è simile a benzina grezza, i contenitori che usano come bicchieri sono francamente inquietanti).

Mercoledì 14
(Fra i cuccioli dell’escolinha – lascio alla missione quello che ho con me: soldi e vestiti – La partenza per Roma, via Addis Abeba)

La mattina passiamo dall’escolinha, dove la suora più simpatica permette ai bimbi di cantare e ballare. E’ una gioia che riesco a riprendere con questa benedetta macchinetta che finalmente ho imparato ad usare.

Il viaggio in aereo è massacrante, ma molto diverso da quello dell’andata. Ora la complicità e l’amicizia hanno preso il posto delle timidezze, del pudore e della diffidenza e c’è anche un po’ di intimità quando Ester ci legge, al bar dell’aeroporto di Addis Abeba, parti del suo diario di viaggio, soprattutto quella in cui dettava le sue impressioni su di noi: su di me quella di un potenziale “saggio” che si emoziona quando scopre cose della vita. La sensazione è strana, come quella della partenza, ma ovviamente diversa. Le regalo il libro di Grun, che sto leggendo: è molto bello, voglio condividere ancora qualcosa. Roma si avvicina, sono molto stanco, mi sta bene essere rientrato in Italia.

Cosa mi ha lasciato Mafuiane ed il Mozambico? Il primo sentimento è un’indistinta emozione, come in uno shock cromatico. I bambini dell’escolinha in fila per lavare le mani che cantano una canzoncina in portoghese, gli altri che aspettano il loro turno per essere presi in braccio e ti ridono e toccano il viso e le mani; la speranza che brilla nei loro occhi e la dignità nei volti luminosi dei loro padri. Il turbamento recatomi dal mio angelo nero, poi i piccini sieropositivi di Madre Teresa che ci facevano festa… Le messe musicate, la festa del villaggio, con i canti bellissimi (alle radici del blues) e le splendide donne bantù ballanti e sorridenti.

Ormai ho la consapevolezza che siamo dei privilegiati: pane e igiene, strutture sanitarie, acqua, vestiti… anche l’essenziale qui va ridefinito giorno per giorno. Sprofondiamo nel nostro consumismo senza più avere coscienza di nulla e la bontà diventa insidioso ed ipocrita buonismo.

Le contraddizioni qui sono forti. Non penso solo alla collina dei ricchi di Maputo, che guarda il mare ed alle belle palazzine coloniali, ma alla tensione che scorre sottopelle e che ho avvertito non tanto al villaggio ma per esempio al mercato, oppure alla (troppa) diffusione di cellulari ed alle antenne dei televisori che svettano dalle case di persone che vestono di stracci…

Ero qui per toccare con mano, per vedere, per cercarmi… Ho toccato ed ho visto. Dio vive nei poveri e noi siamo dei borghesi che ogni sera a casa trovano un letto e di che mangiare, possiamo lavarci, curarci… se un familiare si ammala abbiamo gli strumenti, anche giuridici e di tutela per poterlo curare, dei medici, degli ospedali … Qui la maggioranza della gente non ha nulla di tutto questo e mi chiedo se sia sufficiente limitarsi a svolgere con coscienza il proprio lavoro ogni giorno, vivere magari con maggiore sobrietà, inviare qualche soldo a chi sta peggio, occuparsi dei propri cari e poi magari chiudersi nelle Chiese a suonare l’alleluja. Occorre aver la forza di saper disubbidire invece. Scrisse Don Milani che l’obbedienza non è più una virtù, ma “la più subdola delle tentazioni”, perché è un pretesto, a volte ipocrita, per accettare e non porsi domande, è una scorciatoia per non assumere la nostra responsabilità storica e personale rispetto a tutto quello che sappiamo, ma rispetto a cui non vogliamo assumere alcuna conseguenza nella nostra vita.

L’Impero esige che ci sia un’Aldeia ed una lixeira, che ci siano posti in cui persone vivono nei sotterranei della storia e costruisce un apparato repressivo per garantire quelle che vivono in collina: da che parte stare? Cosa fare?

Cristo era un militante, sfidò il sistema del potere, l’ordine socio economico e spirituale della sua epoca. Lo farebbe anche oggi … Sono state potenti le parole di Zanotelli nel libro che leggevamo ogni mattina, erano potenti le parole del Vangelo di ogni giorno. Il Vangelo richiede una chiamata alle armi e non ci sono scorciatoie: la verità rende soli e crea nemici come successe a Gesù i cui nemici si coalizzarono fino a metterlo a morte perché aveva sfiorato un lembo dell’impero…

Non so ancora come questa lezione si potrà tradurre nella mia vita ma ora so che Dio è il Dio degli schiavi e degli oppressi, che nel sogno di Dio la politica è fondante, che non può esistere un Dio che benedice un sistema dove l’83% delle ricchezze va al 20% delle persone, e 30-40 milioni di persone muoiono di fame ogni anno. E’ l’equivalente di otto olocausti….

Mafuiane è lì, a 15.000 chilometri dall’Italia, ma il viaggio più lungo, come è ovvio, sarà dentro di me.